Come psicoterapeuta familiare una delle cose che mi sono sempre chiesta è come mai ci siano libri, corsi, serate e iniziative rivolte alle future coppie adottive e non si sia pensato di accompagnare anche la famiglia allargata all’arrivo del bambino.
Dopo un ragionevole momento di adattamento coi genitori, infatti, complice anche la fine del
congedo di maternità e/o paternità dei genitori, sempre più spesso i nipoti adottivi vengono affidati
alle cure dei nonni, i quai, forti della loro esperienza genitoriale e spesso di nonnitudine di altri nipoti si lanciano con molto entusiasmo nella cura dei nuovi nipoti, senza però che nessuno abbia loro mai introdotto la diversità che deriva dalla loro storia adottiva.
Capita così che di fronte all’espressione di eventuali difficoltà dei nipoti, i nonni si trovino impreparati a comprendere i reali bisogni dei bambini e rispondano a volte in modo confuso o anche disorientante, ricavandone un senso di inefficacia e di inadeguatezza che se spinto oltre può anche portare al ritiro dalla relazione col nipote.
L’adozione parte sicuramente dal desiderio e dall’amore, ma sappiamo anche che il mondo del
bambino adottivo ha bisogno di essere compreso e conosciuto nella sua complessità: è
fondamentale imparare a ragionare con un’ottica post-traumatica, che possa dare un senso alle
sofferenze passate e ai richiami presenti che la vita quotidiana può scatenare. E questo va insegnato ai nonni così come si fa coi futuri genitori che vengono aiutati durante tutta la fase preparatoria e di attesa a ragionare tenendo sempre presente la storia del bambino.
Così con la sezione di Monza e Brianza di Genitori Si Diventa abbiamo sperimentato un percorso
dedicato ai nonni e futuri nonni, per poter dare voce alle loro aspettative e anche alle loro fatiche e
costruire insieme un ruolo adatto all’accoglienza di un nipote “sconosciuto”.
Ho incontrato dei nonni entusiasti, presenti nella vita dei loro nipoti, attenti e curiosi di conoscere
più a fondo la realtà adottiva, capaci di mettersi in gioco in prima persona condividendo esperienze
di vita, anche faticose.
Ricordo ad esempio una nonna che commossa raccontava la fatica di essere stata accanto alla figlia
durante l’infruttuosa ricerca della maternità biologica, esperienza che lei stessa aveva vissuto tanti anni prima attendendo la tanto desiderata figlia per più di dieci anni. Perché la ferita della non generatività non riguarda solo la coppia, ma si allarga a macchia d’olio a tutto il sistema familiare, che rimane imbrigliato in una sorta di “stallo generazionale”: accanto a due partner che non riescono a diventare genitori ci sono quattro genitori che non possono diventare nonni e
fratelli/sorelle che non diventano zii/zie. Le famiglie di origine si trovano così ad essere spettatori
spesso silenziosi del dolore dei propri cari, impotenti di fronte alla loro sofferenza: perché se da un
lato vorrebbero prendere su di sé tutto il carico del loro figlio/figlia, dall’altro comprendono che la
coppia necessita di una intimità propria della fase di vita che stanno vivendo.
L’arrivo del tanto atteso nipote è il momento in cui c’è il rischio che i nonni si posizionino su due poli opposti: da un lato quelli che ritengono che “ormai tutto è finito, il bambino è a casa, il problema è risolto”, in una sorta di negazione della fatica nel diventare figli e genitori adottivi; dall’altro quelli che fanno ricadere tutto sull’adozione, dimenticandosi che il nuovo arrivato è soprattutto “un bambino”, in una sorta di drammatizzazione della scelta adottiva. In questo caso, una corretta informazione su cosa ci sia davvero alle spalle di un bambino in stato di adozione, sulle fatiche ma anche sulle risorse che questi bambini sviluppano sopravvivendo alla tragedia dell’abbandono, ha permesso ai nonni di raggiungere un corretto equilibrio tra enfasi e preoccupazione, ha tacitato lecite paure ed enfatizzato strategie per creare un sano rapporto col nipote.
Nel percorso, largo spazio è stato dato all’importanza della narrazione, cosa che i nonni conoscono molto bene appartenendo ad una generazione in cui la trasmissione orale la faceva da padrone. La condivisione della propria storia da parte dei nonni è infatti un ottimo legante per la costruzione di una appartenenza familiare del bambino, che nel legame coi nonni sente di fare parte di qualcosa di più grande, che trascende sé e i propri genitori e attraversa le generazioni. Spesso i racconti di eventi vissuti dai nonni durante la loro infanzia, che per il periodo storico non è quasi mai stata semplice, hanno permesso ai nipoti di riattualizzare alcuni ricordi dolorosi della loro storia preadottiva e di trovare delle strategie di elaborazione del dolore.
Ricordo ad esempio un nonno che raccontò di avere trovato la chiave di accesso nel rapporto col
nipote attraverso il racconto di come lui, piccolo, fosse sopravvissuto assieme alla sua famiglia ad
un terremoto che aveva distrutto quasi tutto il suo paese. E nel racconto dei boati che ancora oggi
sentiva nelle orecchie aveva accolto il racconto del nipote che aveva assistito ad una guerra di stato nel proprio paese di origine, e che rispecchiandosi nella sofferenza del nonno aveva lasciato andare il terrore per gli spari e la paura di morire.
Un antico proverbio africano dice che “per crescere un bambino ci vuole un villaggio”, perché i
neogenitori hanno ancora bisogno loro di essere accompagnati e sostenuti nel crescere i propri figli, a maggior ragione quando il proprio figlio arriva a casa con una valigia carica di sofferenza, paure e insicurezze. Ecco che i nonni, se educati all’accoglienza della diversità adottiva, diventano quelle radici sicure che possono tenere in piedi la famiglia durante le tempeste che arriveranno,
consentendo ai genitori di resistere alle sfide della genitorialità adottiva e al figlio di potersi
aggrappare alla solidità di persone che della vita hanno grande esperienza.
A cura di Francesca Boracchi, psicologa-psicoterapeuta
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