L’interruzione terapeutica di gravidanza

“Tutto procedeva bene, eravamo felici…poi quel maledetto giorno, mentre guardavamo il monitor, abbiamo ricevuto la notizia che nessun genitore vorrebbe mai sentirsi dire: non riesco a dimenticare lo sguardo del ginecologo , la sua voce tremolante mentre ci comunicava che il nostro bambino aveva una grave malformazione al cuore. Da lì è partito il nostro calvario..immediatamente ci hanno mandato da un cardiologo specializzato in diagnosi prenatali per capire di che tipo di malformazione si trattava. Shock, dolore, sconforto…in pochi giorni abbiamo dovuto prendere una decisione drastica, se continuare o meno la gravidanza”

Le parole di questi genitori trasmettono un dolore intenso, profondo, lacerante. La diagnosi di patologia fetale richiede massima sensibilità da parte di tutti gli operatori coinvolti.

L’aborto terapeutico è l’aborto effettuato tramite interventi medici al fine di preservare la salute della madre o di evitare lo sviluppo di un feto affetto da gravi patologie o malformazioni.

Aborto Terapeutico

Più nel dettaglio, l’aborto terapeutico rappresenta un’interruzione volontaria di gravidanza che può essere effettuata anche una volta trascorsi i 90 giorni di gestazione previsti dalla normativa vigente (legge 194/1978).

I genitori necessitano di essere accompagnati e sostenuti nel prendere la loro decisione, in quanto la confusione e la paura dominano: un bambino malato prende il posto del figlio immaginato e le fantasie si trasformano in in una realtà dura e cinica, fatta di prognosi, numeri e pareri discordanti (cit. Ravaldi “La morte in attesa”) .  Sapere che il proprio bambino è malato catapulta i genitori in un limbo, in quel limbo essi sono chiamati a fare una scelta: proseguire o interrompere la gravidanza” (cit. Ravaldi “La morte in attesa”). Lo stallo in cui si trovano deriva dall’incertezza della condizione del bambino (magari c’è qualche speranza che sopravviva lo stesso, me la sento di fargli del male? Oppure che vita posso garantirgli se le prospettive sono queste?) e dalla responsabilità decisionale che madre e padre si devono assumere. Il fatto di dover decidere in fretta, in poco tempo, senza spiegazioni esaustive, in uno stato comprensibile di shock, non facilita la decisione.

E se madre e padre non sono d’accordo sulla decisione finale? Spesso tutta la responsabilità ricade sulle spalle della donna, che comunque in primis è coinvolta con il corpo, avendolo in grembo. In questo caso le cose si complicano ulteriormente, aumentando ancora di più la difficoltà decisionale. La donna si ritrova comunque a partorire il bambino a tutti gli effetti, e “lasciarlo andare ” sapendo di aver provocato in qualche modo la sua fine è una sensazione devastante da affrontare.

A prescindere dalla scelta finale, l’interruzione terapeutica di gravidanza va considerata a tutti gli effetti un lutto e come tale richiede un tempo di elaborazione, che i genitori devono prendersi per poter esprimere e vivere a pieno il proprio dolore.

La realizzazione di ciò che si è perso e sarebbe potuto essere e la progettualità mancata comportano un enorme senso di vuoto (lasciato anche dalla pancia) con cui si deve fare i conti. La donna, oltre al bambino, perde per sempre una parte di sè. Tale esperienza infatti può comportare un cambiamento radicale nel modo di pensare e vedere le cose.

a cura di Debora Comi, psicologa psicoterapeuta sistemica esperta in ambito perinatale

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