Certamente perché l’attaccamento riguarda tutti e per tutta la nostra vita: apriamo gli occhi al mondo e siamo programmati geneticamente per creare quel legame unico e speciale che ci assicura la sopravvivenza dapprima fisica e poi emotiva, un legame che si struttura alla nascita e che, con continui cambiamenti, ci accompagna nelle nostre fasi di vita. ll nostro stile di attaccamento influenza il nostro modo di stare in relazione con il mondo e quindi influenza la qualità delle nostre amicizie, la scelta del partner e la funzione genitoriale.
Io credo che in poche parole si possa definire l’attaccamento come il legame che si instaura tra il bambino e la sua figura di accudimento, il cui modo di rispondere ai bisogni espressi dal bambino darà esso stesso la “forma” al legame. È infatti il comportamento di accudimento che il caregiver mette in atto per soddisfare il bisogno di attaccamento del bambino che definirà il modo in cui il bambino si attaccherà a chi lo accudisce.
Ma non solo, le risposte che il bambino sente arrivare dal suo caregiver verranno utilizzate dal bambino come una sorta di guida per andare ad esplorare il mondo, per cui automaticamente lo stile con cui mi attacco al mio caregiver originario diventerà lo stile con cui io mi attaccherò a tutte le figure significative con cui entrerò in relazione: gli insegnanti, gli amici, i partner affettivi e sessuali e poi i miei figli.
Vari studi hanno dato una descrizione dei principali stili di attaccamento, partendo dal comportamento di accudimento del caregiver ed osservando i conseguenti comportamenti di attaccamento del bambino.
Il sistema di attaccamento si attiva automaticamente in noi ogni qualvolta sentiamo una sensazione di disequilibrio emotivo, scatenato da fattori interni oppure da fattori esterni. Quando il bambino si sente a disagio è naturalmente portato a rifugiarsi presso la propria figura di attaccamento e quindi se l’attaccamento è quello che ci garantisce la sopravvivenza, in alcuni casi sembra anche essere la nostra maledizione.
Se io sto male ho bisogno di te, e NON POSSO NON chiedere aiuto a te che sei il mio caregiver.
Se ho un attaccamento sicuro allora tu mi aiuterai e io ritornerò al mio stato di calma, il mio sistema di attaccamento si spegnerà e io riprenderò le mie attività, fino al prossimo momento in cui mi sentirò di nuovo in disequilibrio e tornerò di nuovo da te, certo di ricevere nuovamente aiuto.
Ma se il mio attaccamento è insicuro cosa succede? Che tu non sarai in grado di rispondere in modo efficace alla mia richiesta di aiuto, perché sei troppo occupato o preoccupato dei tuoi problemi, o perché non riconosci la mia difficoltà, e quindi non farai altro che acutizzare il mio disequilibrio e il mio sistema di attaccamento faticherà a spegnersi, tenendomi in balia di un costante senso di precarietà e insicurezza, fino ad arrivare al terrore se alle mie richieste risponderai in modo aggressivo o violento. Ma fino a che il mio sistema di attaccamento sarà attivato io sarò sempre portato a stare vicino a te, che però sei anche la figura che mi spaventa, fino a che un qualche fattore esterno di protezione interromperà questo circolo.
Perché la buona notizia è che nonostante sia un meccanismo innato e che si autoperpetua, l’attaccamento può essere modificato.
Come? Facendo esperienze positive con sostituti di attaccamento sicuri. Ad esempio un insegnate, un educatore, un amico, il proprio partner o anche il proprio terapeuta.
Spesso uno dei primi passi di una psicoterapia è consentire al paziente di sperimentare una relazione sicura e prevedibile, dove sentirsi capaci di chiedere e degni di essere ascoltati con attenzione e reale interesse. Una relazione che può essere correttiva del proprio modo di vedere sé e il mondo e che, anche se nata all’interno di uno spazio terapeutico, può essere portata all’esterno e diventare il terreno su cui costruire le future interazioni.
A cura della D.ssa Francesca Boracchi, psicologa psicoterapeuta
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