ASSISTERE UN FAMILIARE CON DEMENZA

Il percorso che porta alla diagnosi di demenza è tortuoso e l’etichetta di “malattia degenetiva” spesso apre la strada alla persona che ne soffre e ai suo familiari a un futuro incerto che porterà inevitabilmente a un progredire ingravescente delle presenti difficoltà cognitive fino alla completa perdita di autonomia. Ciò comporta il dover lasciar andare l’aspettativa di una guarigione per intraprendere il faticoso e non lineare processo di elaborazione e accettazione della malattia.

Sono svariate le emozioni che si possono alternare nei vari stadi di evoluzione della patologia e possono diversificarsi da individuo a individuo a seconda della sua storia, delle sue caratteristiche personali e della relazione con il familiare.

Spesso, inizialmente, il senso di disorientamento e la paura di ciò che il futuro potrà riservare sono vissuti comuni. Focalizzarsi sul presente, “stare” nel qui e ora, affrontando pian piano, un passo alla volta, le criticità e i cambiamenti che si presentano, senza proiettarsi “troppo avanti”, può aiutare ad accrescere la propria percezione di poter affrontare anche il futuro prossimo.

Oltre alla paura, rabbia, tristezza e disperazione, senso di colpa, di vergogna e di impotenza e sensazioni di inadeguatezza, di frequente, si mescolano, dando origine a faticosi conflitti emotivi e a una profonda sensazione di solitudine.

Ci si ritrova ad interagire con il malato, che può essere un coniuge, un padre, una madre, un fratello ecc., che sta cambiando. Ci si trova così, ad esempio, a confrontarsi con suoi comportamenti bizzarri, a dover rispondere alle stesse domande che vengono poste ripetutamente, a rassicurarlo quando cerca disperatamente i genitori che non ci sono più, o quando chiede a più riprese di tornare a casa, non riconoscendo più il proprio domicilio. Tutti questi comportamenti inducono nel familiare delle reazioni emotive che possono essere affaticanti e difficili da accogliere.

A ciò si aggiungono i vissuti emotivi attivati dalla possibile presenza di disturbi comportamentali che possono emergere nel corso della malattia, tra cui una maggior disinibizione e irritabilità, l’alternanza del ritmo sonno-veglia, deliri e allucinazioni.

Le emozioni faticose, la gestione dei disturbi comportamentali e il confrontarsi con l’avanzare dei deficit cognitivi e con la progressiva perdita di autonomia, con la conseguente richiesta di una sempre maggior assistenza, possono indurre il caregiver (chi si prende cura del malato) a una situazione di stress sempre maggiore. Il ruolo del caregiver, spesso assunto per necessità, più che per scelta, infatti, richiede l’assunzione di numerose responsabilità e l’impiego di molteplici energie e di attenzioni costanti da riservare al familiare.

In mancanza di un supporto da parte di altre figure o di risorse materiali per delegare la cura a figure professionali, il caregiver può sentirsi assorbito, schiacciato dai bisogni del proprio caro, a sfavore dei propri, e costretto a numerosi sforzi e a sacrificare i propri progetti di vita, le relazioni personali e il proprio tempo libero.

Questo insieme di responsabilità può trasformarsi in un fardello che affatica e mette a dura prova il benessere psicofisico del caregiver.

Si parla proprio di “burden del caregiver, dall’inglese fardello o peso, per definire un insieme di condizioni che creano disagio e sofferenza nella persona che si prende cura. Si tratta di una particolare risposta allo stress e si manifesta nelle forme più disparate e soggettive. Oltre a una sensazione crescente di stanchezza e di esaurimento emotivo, i principali sintomi che si possono presentare sono: disturbi del sonno e dell’appetito, deflessione dell’umore, irritabilità, sintomi somatoformi, ansia e preoccupazione persistente.

La letteratura scientifica evidenzia come il burden non solo danneggi il benessere fisico e psicologico del caregiver, ma come comprometta anche la sua capacità di accudimento, comportando, di conseguenza, un probabile peggioramento della qualità di vita del malato.

E’, dunque, importante che il caregiver tuteli se stesso e il proprio familiare, imparando a riconoscere i segnali di stress eccessivo, così da prevenire l’emergere e lo stabilizzarsi di questa particolare forma di burn-out.

Se non è possibile eliminare i problemi quotidiani legati all’assistenza del proprio caro, le perdite di memoria, gli episodi di “wandering” (in cui il malato si trova a vagare senza meta), o i momenti in cui si diviene bersagli della sua aggressività verbale o fisica, ascoltarsi e osservare, senza giudizio, le reazioni emotive suscitate da questi comportamenti, può aiutare a monitorare il proprio stato di salute mentale.

Spesso il caregiver sotto stress cerca dei modi per silenziare le sensazioni negative che prova, finché queste non diventano eccessive e preponderanti. Ascoltare tali vissuti emotivi, notarli con curiosità, accoglierli, costituisce il primo passo per “regolarli” e per attuare comportamenti che non siano intrapresi in modo automatico, ma guidati da intenzionalità. È bene infatti essere consapevoli delle proprie modalità di stare in relazione, in quanto le stesse influenzano le reazioni emotive del familiare che si accudisce.

Imparare a riflettere sulle proprie sensazioni, comprendere quali sono gli aspetti delle interazioni con il familiare che attivano le emozioni più intense e faticose e dar loro un significato, consente di progredire nel processo di accettazione della malattia e garantisce una maggior qualità di vita.

Inoltre, riconoscere le proprie difficoltà e ricercare un aiuto esterno, può essere un atto di generosità e di altruismo per il proprio caro.

Per quanto si possa essere il punto di riferimento preferenziale per il malato, è importante non essere l’unico. Diventa, quindi, fondamentale formare una “squadra” a disposizione del familiare, ricercando possibili sostituti che possano entrare in gioco nei momenti di maggior sovraccarico fisico o emotivo. Così, ricavarsi dei momenti di decompressione e di svago per se stessi, delegando temporaneamente l’assistenza del proprio caro, consente di preservare il proprio benessere e di assumere nuovamente il ruolo di caregiver con un atteggiamento maggiormente accogliente.

Il percorso di accettazione della malattia passa attraverso l’elaborazione di perdite emotive e di cambiamenti relazionali, che può essere accompagnata da vissuti estremamente dolorosi, comporta poi l’integrazione di nuovi aspetti di sé, del malato e del rapporto con lui, fino alla scoperta di elementi di continuità e di nuove modalità di stare in relazione con quest’ultimo.

Se è vero che la parola diventa sempre meno accessibile per il malato, è possibile continuare a comunicare, dando spazio agli aspetti non verbali, come agli sguardi condivisi, ai sorrisi, a un tono di voce gentile o anche a un contatto fisico delicato.

Questo lungo cammino può essere particolarmente faticoso. Può essere quindi importante richiedere l’aiuto di uno psicoterapeuta con cui intraprendere un percorso psicologico volto ad esplorare i propri vissuti emotivi faticosi e acquisire strategie utili a fronteggiare le difficoltà quotidiane.

A cura della Dott.ssa Giulia Bonanomi, psicologa, psicoterapeuta, esperta in neuropsicologia.

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