Quando parliamo di genitorialità il nostro pensiero va subito all’immagine della madre, perché siamo abituati a pensare alla generatività del ventre materno, perché anche in letteratura si parla di “figura materna”, oppure perché pensiamo ai bisogni primari di accudimento di un neonato che quasi sempre sono in capo alla mamma.
Ci sono voluti anni, ad esempio, anche solo perché parlando di attaccamento si passasse dal termine “madre” al termine “figura di attaccamento”.
Nella nascita biologica è infatti la madre che, dopo aver portato in grembo il piccolo per 9 mesi, continua a mantenere per diverso tempo una quasi esclusività nel rapporto con il figlio attraverso l’allattamento, la presenza continua una volta che il papà è rientrato al lavoro, la soddisfazione dei suoi bisogni di contatto.
Se pensiamo poi a come si sviluppa il senso paterno, è solo con la nascita del figlio che il marito/compagno si trasforma in padre, quando il bambino diventa realmente e fisicamente accessibile al contatto e alla possibilità di iniziare a costruire un legame che sia fisicamente che emotivamente è invece già in atto tra la madre e il bambino.
Da qui spesso si parla di “primato materno”.
Parlando della nascita adottiva invece tutto cambia, i ruoli vengono spesso invertiti, certamente equiparati perché il momento dell’incontro col bambino è per entrambi i genitori il primo contatto in assoluto con lui.
Sin dal primo momento in cui la coppia si affaccia al progetto adottivo i partner della coppia vengono egualmente investiti della medesima importanza, camminando fianco a fianco dal momento del desiderio al momento dell’incontro. I futuri papà adottivi vengono in un certo senso tolti dall’oblio e dal ruolo di osservatori della vita che nasce, per assumere un ruolo di co-protagonista nella costruzione dell’immaginario del figlio che accoglieranno insieme alla moglie. Partecipano ai percorsi di preparazione, si mettono in gioco durante i colloqui con l’equipe psicosociale e il Giudice del Tribunale, presenziano ai momenti di avvicinamento col figlio e vivono dal primo istante appieno la nascita della famiglia adottiva. L’adozione sa che il ruolo del padre è fondamentale sin dai primi istanti, sia come compagno della madre che come riferimento del figlio.
Spesso mi è capito di assistere ad un vero ribaltamento dei ruoli genitoriali per come li abbiamo in mente, o per come quasi tutti noi li abbiamo vissuti da figli biologici, per cui il genitore eletto dal figlio adottivo è il padre e non la madre. Un evento imprevisto che, se non compreso, potrebbe rappresentare una criticità nella formazione dei legami familiari.
Una delle motivazioni di tale evento è da ricercare proprio nella storia del figlio adottivo, che si è sentito tradito e ferito dalla sua figura primaria di accudimento, quasi sempre la madre, e che si trova quindi a proiettare i suoi sentimenti di rabbia, dolore ed evitamento sulla madre adottiva, riservando le sue attenzioni alla figura maschile che invece nel suo panorama fantastico non è quasi mai presente e quindi appare come una figura neutra, da scoprire. Il tema dello “sconosciuto” è infatti un’altra motivazione: spesso questi bimbi hanno ricordi della madre ma non del padre, hanno vissuto in comunità a gestione prevalentemente femminile, il loro intero mondo è stato popolato da figure femminili così che all’apparire di una figura misteriosa e non nota la loro curiosità si accende ed iniziano fiduciosi una esplorazione del padre adottivo. Va da sé che le figure femminili si associano poi a momenti di vista dolorosi, mentre le figure maschili, nella loro assenza, hanno lasciato aperta la possibilità che “con loro andrà meglio”.
Il ruolo del padre in adozione non è solo fondamentale per la creazione del legame col figlio, che su di lui proietterà grandi aspettative di risarcimento, ma anche come regolatore della diade madre-bambino dove, invece che fungere da separatore della simbiosi come nella nascita biologica, deve fungere da facilitatore del rapporto tutto in salita tra madre e figlio adottivo. Uno dei compiti del padre in adozione è infatti quello di non chiudersi nella beatitudine del suo rapporto positivo col bambino, ma di farsi carico della sofferenza della madre messa all’angolo ed utilizzare proprio la sua posizione privilegiata per fare avvicinare madre e figlio, ad esempio facilitando il tempo speso insieme o creando delle occasioni di esclusività madre-bambino.
Può invece capitare che la storia traumatica del bambino porti ad un blocco nel legame col padre, e questo succede in tutte quelle situazioni in cui il bambino ha dei chiari ricordi di abusi e maltrattamenti subiti ad opera della figura paterna biologica. E’ facilmente comprensibile come la paura, e la sfiducia e il senso di pericolo sperimentati possano portare all’evitamento anche della figura paterna adottiva, che inizialmente nella mente del bambino rimane sovrapposta a quella biologica. In un bambino con una storia di violenze anche la sola presenza del padre adottivo funge da riattivatore traumatico delle sue ferite.
In questo caso è fondamentale il ruolo protettivo della figura materna, che attraverso la creazione del legame di fiducia e riparazione, si ponga “a garanzia” della bontà paterna agli occhi del figlio adottivo. E al contempo è fondamentale che il padre non viva il rifiuto del bambino come qualcosa legato a lui personalmente o come una incapacità del bambino di creare con lui un legame, ma che rimanga fisicamente ed emotivamente a disposizione del figlio così che il bambino, appena pronto, possa accedere al padre ed iniziare un legame di appartenenza.
Un padre adottivo è più coinvolto di un padre naturale. L’attesa lo rende più premuroso. Questa bambina è arrivata nello stesso modo a me e a lui. Una mamma che porta nel grembo un bambino per nove mesi ha la sensazione di conoscerlo già; mentre per il padre è una novità. Nell’adozione non è così, si è entrambi allo stesso livello, quando io ho guardato Lucia per la prima volta lui era con me. Il coinvolgimento è stato lo stesso per tutti e due.
(Anna Oliviero Ferraris, Il Cammino dell’Adozione, 2002)
A cura di Francesca Boracchi, psicologa-psicoterapeuta
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