ESPRIMERSI CON CURA

 

Il blu è il colore che per antonomasia viene attribuito alla gola e alla comunicazione. 

Esprimere chi si è, non aver paura di chiedere per ottenere ciò che si vuole  sono antichi moniti sulla strada della più profonda realizzazione personale e professionale. 

Domandarsi e sentire se davvero quello che pensiamo di desiderare, per esempio, lo desideriamo poi davvero. Regalarsi parole buone. O trovare un modo per comunicare più adatto a noi ci aiuta a centrarci nel rispetto di ciò che siamo. 

Quante volte abbiamo l’impressione che solo un tono o un volume della nostra voce stoni anche a noi stessi. Ci costa sforzo, fatica e irritazione. Con il risultato di sentirci poco ascoltati. Ma come puó accadere se siamo noi i primi a non essere convinti di ció che esprimiamo? 

E magari stanchi, urliamo o ci stressiamo con toni acuti.  

Un’esperienza che spesso fa chi lavora con bambini e ampie classi poco disciplinate è smettere di parlare quando inizia la disattenzione. 

Generare silenzio. Funziona, molto di più di mille parole. 

Potete provare anche a casa. Con famigliari, amici e parenti. Se avete l’impressione che qualcuno non vi stia ad ascoltare davvero mentre state apparecchiando la tavola o cucinando per esempio smettete di parlare. Si creerà attenzione intorno a voi. In teatro si dice di non avere paura delle pause, dei silenzi. 

 Quante volte si rischia soprattutto agli inizi di correre sulle parole per paura. Di un vuoto o di perdere il ritmo.  

Trovare le “giuste” pause in un discorso può aiutare a farlo crescere in considerazione. 

Quanto ci stancano i toni urlati che troppo spesso osserviamo in siparietti mediatici? 

È certo un contesto che risponde alle sue logiche.  

Ascoltare e replicare la propria argomentazione, si sa, è un’arte.  Interessante a questo proposito il documentario del regista Stéphane De Freitas incentrato sul concorso di oratoria dell’Università di Saint – Denis dal titolo ” A voce alta – La Forza della Parola“. 

 

Ad ogni modo, ai fini del proprio ben-essere anche un urlo può essere liberatorio. Quando non fa male alle corde vocali. 

 Liberare <<ciò che si ricaccia in gola>> in maniera sana senza fare male né a sé stessi né gli altri si rivela terapeutico. Danzare, cantare, ascoltare musica, creare, recitare permette di sciogliere tensioni attraverso canali creativi con riduzione dei livelli di cortisolo.  

E anche urlare senza farsi male alle corde vocali è possibile.  

Ma quando verrebbe spontaneo urlare? 

In generale in situazioni di pericolo, in momenti di gioia (basti pensare ai concerti o alla tifoseria), di sforzo o quando ci si sente inascoltati.  Come i bambini che spesso – giusto o sbagliato che sia – gridano per urlare il proprio essere. 

 Cerchiamo di recuperare quel bambino.  

Iniziate con le mani sui fianchi a inspirare, trattenere per pochi secondi l’aria e poi sull’espirazione emettere ad alta voce una sonora A, tenendo sempre le mani sui fianchi. Che cosa accade?  

Per arrivare a farsi sentire stando aperti e rilassati – liberando il chakra – è di sostegno saper padroneggiare bene la propria respirazione e la consapevolezza del proprio strumento.  

Corpo e voce costituiscono insieme il nostro strumento musicale.  È questa una similitudine molto frequente in teatro. Il musicista ha uno strumento che suona attraverso il proprio essere; ballerini, attori e cantanti sono lo strumento di sé stessi. 

Ad ogni modo, quante volte accade che mentre parliamo sentiamo di falsarci come se ci stessimo intonando sule “note” del nostro interlocutore/-trice, magari subendole?  

Quante volte accade che una voce proprio non la sopportiamo e un’altra ci rilassa?  

Quante volte la nostra voce non ci piace? 

 In realtà la nostra stessa voce potrebbe avere altre sfumature che nella frenesia del quotidiano o per limiti che ci affibbiamo e affibbiano lasciamo da parte.   

Molto spesso accade che quando le persone sperimentano come l’aria può “girare” dentro di loro – corpo e voce sono il nostro strumento che vibra – hanno sui visi l’espressione della scoperta epocale. E di conseguenza di chi li sta accanto. 

Può essere d’aiuto provare a dire una stessa frase con un tono, non volume, diverso.  

Un altro  esercizio che si può fare è provare a pronunciare le parole nella loro corretta dizione. 

Ci ingegniamo a imparare parole straniere, a pronunciarle nel modo più corretto possibile, ma in rari casi ci viene insegnato quale sia la corretta pronuncia della lingua italiana.  

Non è solo un vezzo stilistico di un’antica arte recitativa o un atteggiamento caratterizzato da snobismo che può suscitare anche ilarità. 

Lo sanno bene i ragazzi che studiano recitazione che sono attorniati da persone che spesso li stuzzicano in continuazione con un’argentina domanda ironica <<ma come parli?>>; accade soprattutto in quei luoghi dove l’intonazione regionale stravolge l’accento.  

Parole pronunciate in maniera errata che fanno parte del quotidiano – comunque ricco e variegato -. Divertirsi a caratterizzare con le inflessioni dialettali fa parte del gioco della recitazione. Una scrittura che riporta il modo di parlare quotidiano dei suoi personaggi spesso ce li fa sentire più vicini e ci diverte.  

Invece, provate sempre con lo stesso principio di prima.  

Mettete le mani sui fianchi, inspirate, trattenete l’aria per pochissime frazioni di secondo poi emettete sull’aria la parola béne (con la e chiusa). Fate una piccola pausa e sempre sfruttando il principio di inspirazione ed espirazione pronunciate la parola bène in maniera corretta con la e aperta senza esagerare.  

Che cosa accade?  

Quali sensazioni in gola? 

Ora, invece, potete divertirvi a provare a pronunciare in maniera corretta la parola precòce. 

Provate a pronunciarla sostenendola con la respirazione nel modo prima sbagliato, poi corretto.  

Che cosa sentite, se sentite qualcosa tra il petto e la gola? 

E infine provate a pronunciare pèsca e poi pésca.  

Lo sapete che con la prima state parlando del frutto, con la seconda dell’atto del pescare? 

Le lingue sono ricche di regole, inflessioni e accenti e imparare a giocarci ci aiuta a scoprire qualcosa in più di noi stessi e di come possiamo “risuonare”. 

Articolo a cura di Alessandra Moscheri, performer

 

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